sabato 28 aprile 2018

28 APRILE 1945 LA STRAGE DI ROVETTA

“Io ho perso non solo la guerra, ma la mia città, la mia Dalmazia. Avevo giurato di vincere o di morire. Una guerra si può perdere, ma con onore, non servendo ed ossequiando il nemico. Noi non abbiamo tradito! Viva il Duce, viva l’Italia!”.
Tenente Giuseppe Mazzoni
1^ Legione M d'Assalto "Tagliamento" della G.N.R.
Il momumento ai caduti di Rovetta all'interno del cimitero del Verano a Roma
Siamo all'indomani del 25 aprile 1945 data convenzionalmente fissata come giorno dell'insurrezione generale delle forze partigiane. I tedeschi sono in ritirata verso quello che rimane del Terzo Reich e le forze molto consistenti ancora in armi della Repubblica Sociale si ritrovano senza ordini e con il dilemma su cosa fare. Resistere in armi in attesa di consegnarsi ai comandi alleati, sbandarsi o consegnarsi alle forze partigiane che promettono salva la vita, ma che come vedremo in seguito faranno tutto l'opposto. Siamo nella bergamasca, è 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiungono alcuni militi della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi, sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi e si dirige verso Clusone. Si trattava di un reparto composto da 47 militi comandati dal giovane S.Ten. Panzanelli di 22 anni, appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana che si era distinto per la ferocia con cui aveva condotto la lotta anti partigiana. Giunti nei pressi di Rovetta intavolarono trattative con il locale C.L.N. che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. . Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Questo comitato CLN si era autoproclamato tale, non aveva poteri effettivi e le sue garanzie non avevano alcun valore, cosa che il Panzanelli non sapeva. I militi, lasciate le armi, vennero trasferiti nei locali delle scuole elementari del paese in attesa di essere consegnati alle autorità del Regno del Sud o agli eserciti regolari degli Alleati. Erano giorni concitati, giorni di vendetta in cui nessuna garanzia valeva, erano giorni da far west in cui improvvisati giustizieri mietevano vittime in nome di una giustizia che colpiva senza nessun processo. Fu così che il 28 giunsero a Rovetta, due camion di partrigiani provenienti da Lovere, questi si appartenenti al C.L.N. che avevano saputo della presenza dei prigionieri. Arrivati in paese chiesero brutalmente la consegna dei prigionieri. Nessuno poteva e forse voleva opporsi, pur sapendo a quale destino i ragazzi, ricordiamoci che andavano da un età di 15 a un massimo di 22 anni, andavano incontro. Il sottotenente Panzanelli esibì inutilmente la copia dell'atto di resa, che fu fatto a pezzi. Chiese ancora che fosse lui e lui solo a pagare, e sollecitò per i suoi soldati un trattamento equo così come previsto dai patti sottoscritti, ma tutto fu inutile. Dovette così raccogliere dignitosamente gli occhiali e avviarsi al suo crudele destino ; fu fatto poi seguire, divisi a piccoli gruppetti, dai suoi soldati. Don Bravi protestò energicamente solo quando i partigiani gli dissero che avrebbero fucilato i militari conto il muro della chiesa, dicendo che glielo avrebbero sporcato, e per il resto subì e fu parzialmente acquiescente. Anche lui si rimangiò la parola: l'importante, per lui, era l'aver scongiurato una futura sconsacrazione della parrocchiale, e tanto gli bastava in quel momento. Cosi dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Cmp, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, 1931, di Milano, Ausili Enzo, 1928, di Roma e Bricco Sergio, 1929, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. Ben 28 di loro avevano meno di 20 anni. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella del Duce.
Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi “azioni di guerra”. Fu, cioè, dalla viltà dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.
Tre dei quarantatre Legionari della 6 Compagnia della 1 Legione M d'Assalto Tagliamento
 trucidati a Rovetta. Il primo a destra è il Legionario Bruno Dilzeni
Sotto riportiamo elenco dei 43 legionari della TAGLIAMENTO fucilati
ANDRISANO Fernando, anni 22
AVERSA Antonio, anni 19
BALSAMO Vincenzo, anni 17
BANCI Carlo, anni 15
BETTINESCHI Fiorino, anni 18
BULGARELLI Alfredo, anni 18
CARSANIGA Bartolomeo Valerio, anni 21
CAVAGNA Carlo, anni 19
CRISTINI Fernando, anni 21
DELL'ARMI Silvano, anni 16
DILZENI Bruno, anni 20
FERLAN Romano, anni 18
FONTANA Antonio, anni 20
FONTANA Vincenzo, anni 18
FORESTI Giuseppe, anni 18
FRAIA Bruno, anni 19
GALLOZZI Ferruccio, anni 19
GAROFALO Francesco, anni 19
GERRA Giovanni, anni 18
GIORGI Mario, anni 16
GRIPPAUDO Balilla, anni 20
LAGNA Franco, anni 17
MARINO Enrico, anni 20
MANCINI Giuseppe, anni 20
MARTINELLI Giovanni, anni 20
PANZANELLI Roberto, anni 22
PENNACCHIO Stefano, anni 18
PIELUCCI Mario, anni 17
PIOVATICCI Guido, anni 17
PIZZITUTTI Alfredo, anni 17
PORCARELLI Alvaro, anni 20
RAMPINI Vittorio, anni 19
RANDI Giuseppe, anni 18
RANDI Mario, anni 16
RASI Sergio, anni 17
SOLARI Ettore, anni 20
TAFFORELLI Bruno, anni 21
TERRANERA Italo, anni 19
UCCELLINI Pietro, anni 19
UMENA Luigi, anni 20
VILLA Carlo, anni 19
ZARELLI Aldo, anni 21
ZOLLI Franco, anni 16

martedì 17 ottobre 2017

17 ottobre 1942 POLOJ L'ultima carica della seconda guerra mondiale

7 OTTOBRE 1942 POLOJ
L'ultima carica della cavalleria nella seconda guerra mondiale.
Stemma del 14° Reggimento Cavalleggeri ALESSANDRIA
«Abbiamo avuto l'onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria» 

questo il commento in tono ammirato del maresciallo Tito a proposito dei fatti d'arme che tratteremo in questo post.

Ancora adesso a 75 anni da questi fatti molti conoscono come ultima carica della cavalleria della seconda guerra mondiale e forse dell'intera storia bellica mondiale, quella del «Savoia Cavalleria» avvenuta il 24 agosto 1942 a Isbuscenskij in Russia. Un attacco alla sciabola che permise di rompere l'accerchiamento dei nemici ed evitare una disfatta. Un misto di capacità di manovra, tattica ed eroismo da far esclamare agli sbalorditi tedeschi, solitamente parchi di complimenti, «Noi queste cose non sappiamo più farle». In realtà l'ultima battaglia di un reggimento a cavallo si svolse un paio di mesi dopo, il 17 ottobre, a Poloj in Croazia. Un attacco reso necessario da una serie di errori dell'alto comando, che preferirono per questo far cadere una sorta di «velo d'oblio» sul sacrificio dei cavalleggeri del 14° Cavalleggeri d'Alessandria. L'episodio si inserisce in un ciclo di operazioni iniziato il 1° ottobre contro le formazioni partigiane operanti nella zona, che dura sino al 23 ottobre. Non stiamo a dilungarci sulle operazioni che ai svolsero quei giorni e andiamo dritto al 17 ottobre 1942 tema del presente post.
Il 14º Cavalleggeri di Alessandria era inquadrato nella 1^ divisione celere "Eugenio di Savoia", composta oltre che dal 14°, dal reggimento "Cavalleggeri di Saluzzo", dallo squadrone carri L " S. Giusto " e rinforzato da una sezione di artiglieria ippotrainata da 75/27 della divisione "Re".


Cavalleggeri di Alessandria, divisa I capitano, 1940
Comando

L'organico del reggimento era il seguente:
Squadrone Comando
3 Squadroni Cavalleggeri di Alessandria
1 Squadrone Cavalleggeri di Lodi
5° Squadrone mitraglieri
XII Gr. app. Cavalleggeri di Alessandria
XIII Gr. smv. controcarro da 47/32 Cavalleggeri di Alessandria
VII Btg. Movimento stradale Cavalleggeri di Alessandria
XII Btg. Movimento stradale Cavalleggeri di Alessandria
III Gr. Carri L6 Cavalleggeri di Alessandria
IV Gr. Carri L6 Cavalleggeri di Alessandria

I Cavalleggeri di Alessandria in Croazia, ottobre 1942

Al sorger del sole del 17 di ottobre 1942, il 14º reggimento, guidato dal colonnello Antonio Ajmone Cat con una colonna di artiglieria ippotrainata, il 3º squadrone carri su L6/40 e l' 81° battaglione Camicie Nere divisionale, muoveva verso Primislje in una normale operazione di controllo quando, nelle prossimità del fiume Korana, un manipolo di partigiani Jugoslavi esplosero dei colpi di grosso calibro dalle alture circostanti, uccidendo subito un ufficiale e un cavalleggero e ferendo diversi uomini e cavalli. Dopo un leggero ripiegamento del 14°, che però ha dato tempo ai partigiani di riorganizzarsi e di appostarsi nelle alture vicine, alle 13.00, il reggimento si mosse in formazione a losanga, rinforzato dal 40º squadrone di supporto con carri e pezzi d'artiglieria.
Alle 14.30, questo raggiunse Poloj e si schierò nella valle in ordine di combattimento, poiché le alture erano tenute dai partigiani, e subito iniziò un violento scontro a fuoco. Alle 17.00 si accentuò la pressione avversaria, così il generale Lomaglio, comandante della 1ª Divisione Celere "Eugenio di Savoia", ordinò dal comando di proseguire per Primislje e mandò sul posto il generale Mazza, vicecomandante la divisione. Alle 18:30 Lomaglio, col far del buio, decise di far ritirare le forze a Perjasica, ma ormai i partigiani aspettavano questa mossa. Il colonnello Cat mandò in scoperta il primo squadrone del capitano Antonio Petroni con lo squadrone comando e quello dei mitraglieri.
Nel frattempo il terzo squadrone, sfoderate le sciabole, si lanciò alla carica sui partigiani che scendevano dalle alture a sinistra, mentre il secondo faceva lo stesso dal lato opposto; in retro guardia il quarto squadrone del capitano Vinaccia caricò ripetutamente per coprire la ritirata dell'artiglieria e degli automezzi: il capitano cadde nello scontro, ma le perdite partigiane furono nettamente superiori. I pochi partigiani rimasti, a questo punto, decisero di organizzare un terzo sbarramento, ma una poderosa carica di sciabole riuscì a spezzare l'accerchiamento formatosi e a metterli in fuga.
L’impeto, la decisione e la rapidità dell’azione sconvolse i piani dell’ avversario e fece in modo che le truppe che seguivano il Reggimento non avessero perdite.
A fine battaglia, in tarda serata, il 14º Cavalleggeri contava 129 caduti, 9 ufficiali, 4 sottufficiali, 116 soldati e 160 cavalli e una settantina di feriti, pesantissime le perdite partigiane Per il Regio Esercito non fu solo una vittoria strategica ma anche tattica. I cavalleggeri rientrarono vittoriosi la mattina del 18 ottobre a Perjasica, accolti dagli alti comandi con tutte le glorie, nonostante l'amarezza per aver perduto nello scontro il regio stendardo che accompagnò quel reparto durante tutta la sua storia.
I tanti atti di valore individuali sono ricompensati con 12 Medaglie d'Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra.
I caduti furono, per ordine dei partigiani ai civili del luogo, subito seppelliti, onde evitare possibili epidemie. In fosse affrettatamente scavate furono calati, insieme, partigiani, soldati italiani e cavalli. Tutti i caduti italiani furono privati, delle uniformi, delle armi, delle munizioni e dell'equipaggiamento; impossibile, quindi ogni successivo riconoscimento di salme. Si é potuto capire che tutti i prigionieri vennero uccisi e le camice nere anche seviziate.

Il caporal maggiore Emilio Zanetti dei Cavalleggeri di Alessandria a 96 anni durante una premiazione nel 2015
La carica di Poloj fu una azione di grande importanza, in tutti gli aspetti, pur non essendo scaturita dalla autonoma decisione del suo comandante ma quasi imposta dall'alto, per eseguire un ordine; eseguita in maniera esemplare dai soldati italiani. Secondo analisti militari e strateghi, le alte perdite avrebbero potuto essere evitate o quantomeno ridotte se il combattimento fosse stato condotto liberamente dal comandante sul campo. Difatti su questa carica, dopo un galvanizzamento generale, venne quasi immediatamente steso un velo di imbarazzato silenzio. Divulgare completamente le circostanze in cui avvenne avrebbe messo in luce le manchevolezze dei comandi e la leggerezza con cui venivano impartiti gli ordini. Si preferì pertanto continuare a parlare della carica del «Savoia Cavalleria» a Isbuscenskij come dell'ultima carica e fare calare il silenzio sull'episodio di Poloj.
La bandiera del reggimento, che dopo lo scioglimento nel 1979 è conservata nel museo del Vittoriano, aspetta ancora quella medaglia d'oro che solo il presidente della Repubblica, motu proprio, potrebbe conferire. La burocrazia cieca, le tante delusioni e le omissioni sospette non hanno piegato ancora i reduci che, hanno anche restauratp a loro spese la chiesetta di Poloj, dove sono sepolti i caduti. Sarà una battaglia dura, ma chi ha sostenuto una carica di cavalleria (e poi, dopo l'armistizio, il calvario nei campi di prigionia tedeschi) ce la può fare.

Poloj, chiesa campestre presso il luogo della battaglia

lunedì 16 ottobre 2017

ARNALDO ARZARICH Un eroe sconosciuto

ARNALDO ARZARICH
Un eroe sconosciuto
Anche oggi siamo qui a parlare della figura di un grande italiano ai piu' sconosciuto. Stiamo parlando del maresciallo dei vigili del fuoco Arnaldo Arzarich. Nato a Pola il 3 maggio 1903 ottenne la Medaglia d'oro al Valor Civile per essersi distinto in particolari atti di coraggio e perizia nell' espletamento delle sue funzioni. 

Il maresciallo del 41° corpo dei vigili del fuoco di Pola, Arnaldo Arzarich
Parliamo di lui oggi 16 ottobre perché nel lontano 16 ottobre 1943 egli ricevette dal suo Comandante Ing. Gaetano Vagnati un ordine che probabilmente non si sarebbe mai aspettato di ricevere.
Ma torniamo indietro di qualche giorno nel convulso e tragico fine 1943 per inquadrare i fatti.
L' 8 settembre il maresciallo Badoglio annuncia che 5 giorni prima il Regno d'Italia si è arreso agli alleati. L'ex alleato la Germania nazista considera la cosa un tradimento in piena regola e Hitler ordina di attuare il piano gia' studiato dal maggio precedente, in caso di defezione dell'Italia.
Scattava così l'operazione Achse che prevedeva la neutralizzazione delle forze armate italiane su tutti i teatri dove esse operavano e il piano Alarich l'occupazione dell'Italia non ancora in mano agli alleati. Ci spostiamo ora nella zona interessata al nostro post odierno.
Dalle operazioni tedesche erano rimaste escluse la Venezia Giulia e la Provincia di Lubiana, dove essi si limitarono ad assumere il controllo dei centri principali, quali Pola, Trieste e Fiume. Nel resto della regione, lasciato sguarnito, i partigiani jugoslavi occuparono tutte le zone rimaste sguarnite, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Il 13 settembre 1943, a Pisino venne proclamata unilateralmente l'annessione dell'Istria alla Croazia, da parte del Consiglio di liberazione popolare per l'Istria. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria. Improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione, emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, nella quale tuttavia apparivano anche persone estranee al partito e che non ricoprivano cariche nello stato italiano. Vennero tutti arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altre persone di etnia italiana e croata. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita. Secondo le stime più attendibili, le vittime del 1943 nella Venezia Giulia, si aggirano sulle 600-700 persone. Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste sono Norma Cossetto, don Angelo Tarticchio, le tre sorelle Radecchi. Norma Cossetto come vedremo più avanti ha ricevuto il riconoscimento della medaglia d'oro al valor civile.
Terminate le operazioni di disarmo del Regio Esercito il Comando Supremo germanico decise di riprendere possesso delle zone controllate dai partigiani jugoslavi. Fu così che nella notte del 2 ottobre 1943 sotto il comando del generale delle SS Paul Hausser, scatto' l'operazione Nubifragio in tedesco operazione Wolkenbruch, a cui presero parte anche ridotte unità della neonata Repubblica Sociale Italiana. I nazifascisti penetrarono nell'Istria con tre colonne, precedute da forti bombardamenti aerei, raggiungendo in pochi giorni tutte le principali località. I reparti partigiani furono annientati e costretti alla fuga verso l'interno. A seguito di questi fatti veniva costituita la Zona d'operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland) comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, sottoposta a diretta amministrazione militare tedesca e sottratta di fatto al controllo della Repubblica Sociale Italiana. 
I territori della Operationszone Adriatisches Küstenland
L'area venne affidata al gauleiter austriaco Friedrich Rainer che tuttavia permise in città la costituzione di una sede del PFR, diretta dal federale Bruno Sambo, la presenza di un modesto contingente di militari italiani al comando del generale della GNR Giovanni Esposito e l'insediamento di un reparto della Guardia di Finanza. Egli stesso nominò podestà della città Cesare Pagnini, mentre come prefetto della provincia di Trieste scelse Bruno Coceani. Entrambi i personaggi erano graditi alle autorità della RSI e allo stesso Benito Mussolini. Le neo costituite autorità italiane vennero ben presto a conoscenza dei massacri indiscriminati che nei pochi giorni dell'occupazione gli jugoslavi perpetrano in quei territori dopo che alcuni bambini trovarono vicino alla voragine della foiba di Vines, in Istria, gli occhiali rotti del loro babbo e alcuni bottoni strappati dagli abiti, furono chiamati i compaesani e i pompieri di Pola, per capire cosa poteva essere successo. C'era pure un forte odore acre che usciva dalla voragine carsica. I colombi non si aggiravano più come invece facevano normalmente. Per questo la foiba venne chiamata foiba dei colombi. Il compito di ispezionare le foiba fu affidato dal comandante del 41° Corpo dei Vigili del Fuoco di Pola, Ing. Gaetano Vagnati al maresciallo Arnaldo Harzarich lui stesso di Pola a detta di tutti il miglior uomo che il reparto avesse a disposizione.
Organizzatore e coordinatore sul campo, Harzarich partecipò in prima persona alla gran parte dei recuperi dalle foibe istriane che termineranno, per il precipitare della situazione militare, il 2 febbraio 1945.
La mattina del 16 ottobre 1943, in località' Cregli di Barbana, scortato da una squadra di polizia in quanto la zona era molto pericolosa perché infestata dalle bande partigiane comuniste titine, Harzarich esplorò la prima foiba.
Preparata l`impalcatura destinata a sorreggere la fune a cui era assicurato, egli iniziò la discesa. Metro dopo metro, nell`oscurità' discese per 80 metri e dovette fermarsi perché la profondità' era superiore alla lunghezza della fune di cui disponeva. Ritentò più volte l`esplorazione di questa foiba ed il 10 dicembre, raggiunse il fondo della voragine a 190 m.
Lì, sul fondo della foiba, nelle viscere della terra, da solo, si ritrovò in una caverna lunga due metri e larga appena ottanta centimetri. Illuminati dalla torcia, i corpi devastati delle vittime giacevano accumulati l`uno sull`altro. Harzarich tentò un conteggio dei poveri corpi, conteggio che risultò impossibile, per i danni causati dai 190 metri di precipitazione e per il tempo trascorso dalle uccisioni. Egli prese quanti più brandelli e resti di indumenti gli fu possibile, e ciò permise la successiva identificazione degli sventurati da parte dei loro congiunti.
La sera del 18 dicembre 1943, dopo un`altra pericolosissima e faticosissima discesa, furono riportate alla superficie le salme degli otto sventurati che ivi erano stati precipitati.
Estrazione di un corpo da una foiba
I rischiosi interventi di Harzarich e della sua squadra si ripeterono tante altre volte, come nella foiba di Vines profonda 226 metri, da cui vennero recuperati 84 cadaveri, come in quella di Surani presso Antignana (135 metri e 26 salme recuperate), in quella di Terli presso Barbana (125 metri e 26 salme recuperate), nell`abisso di Semi a Lupogliano (246 metri e contenente almeno 120 vittime), in quella di Gimino, Castellier, Carnizza, S. Lorenzo del Basanatico, Marzara, Rozzo, Pisino, Lindaro; a decine furono ancora esplorate ed a centinaia le salme dei trucidati recuperate. Per le sue valorose imprese nel recupero degli infoibati, sin dall`ottobre 1943, ricevette le prime lettere minatorie, scritte in slavo e con timbri partigiani, nelle quali gli veniva ordinato di sospendere il lavoro di recupero se voleva evitare di finire in foiba pure lui. Le ultime lettere minatorie le ricevette nel dicembre del 1944, ed in esse gli venne comunicato che i partigiani slavocomunisti lo consideravano un "criminale di guerra" condannato a finire in foiba assieme ai suoi congiunti. Il 27 marzo 1945, trovandosi a Cividale del Friuli, a casa del Comandante dei V.V.F Podrecca, venne a sapere che i partigiani di Tito avevano posto una taglia di 50.000 lire (di allora!) sulla sua testa.
« Più e più volte, nel rientrare a Pola fui bersagliato dal rosaro dei colpi di mitra sparati dai partigiani comunisti slavi .... che cercavano con tutti i mezzi di ostacolare l'esplorazione e il recupero delle salme dalle foibe. »(Dal racconto di Arnaldo Harzarich)
La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine "foibe" cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo.
Arzarich produsse una documentazione che nel giugno del 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, presentò alle autorità alleate, descrivendo foiba per foiba l'attività svolta e i riconoscimenti fatti. In totale recuperò i corpi di 204 infoibati più quelli di altre persone eliminate probabilmente in modo diverso. In totale 250 morti. Particolarmemte triste fra le tante non meno tragiche operazioni, fu quella del 10 e 11 dicembre 1943, nella quale presso Antignana, nella foiba di Villa Surani, venne recuperata la salma di Norma Cossetto, occultata insieme ad un'altra ventina di corpi.
Un immagine delle operazioni di recupero di alcuni corpi fra i quali si trovava quello di Norma Cossetto
Figlia di dirigente locale del Partito Nazionale Fascista e ufficiale della Milizia a lei e a sua sorella Licia fu chiesto a forza di schierarsi con i partigiani comunisti in Istria. Al rifiuto netto di Norma, ella fu torturata, seviziata, stuprata da un gruppo di diciassette titini e gettata, ancora viva, nella foiba di Villa Surani.
Alla sua memora la Repubblica Italiana ha concesso la medaglia d'oro al merito civile alla memoria
«Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio.»
— Villa Surani (Istria) – 5 ottobre 1943
Norma Cossetto e a fianco la sua tomba
Il 12 luglio 1945, Arzarich venne portato al centro "J" del G.M.A. il Comado Generale Alleato di Pola, dove venne interrogato quale "persona degna di ogni considerazione e del tutto attendibile" nel documentare le atrocità commesse dagli slavi contro gli italiani dell`Istria. Ecco uno stralcio dell'interrogatorio :
"Ha il sistema nervoso molto scosso; si estranea sovente dall`argomento rimanendo per minuti interi con gli occhi fissi nel vuoto: ciò si può certamente attribuire alle terribili visioni a cui era portato nel corso della sua attività' di recupero nelle foibe".
Con la sua famiglia fu costretto ad abbandonare Pola nel 1947 per trasferirsi a Trieste. Passò per il campo profughi di Silos e come purtroppo spesso succede nel nostro paese, tanto valore, tanta abnegazione e tanto coraggio non furono ripagati quanto avrebbero meritato; anzi, il Comando dei V.V.F di Venezia, dando credito alla denuncia di aver partecipato a rastrellamenti, presentata contro di lui, non volle riassumerlo in servizio, denuncia palesemente infondata fatta da una persona che "confondeva" i rastrellamenti con la scorta armata Repubblicana, dalla quale veniva accompagnato fino alla foiba dove procedeva al pericoloso lavoro.
Egli venne quindi trasferito, con un altro cognome, in una località' dell`Italia centro meridionale, dove la vendetta degli slavi non avrebbe potuto raggiungerlo.
Così venne dimenticata la grandiosa figura del Maresciallo Harzarich, che il 22 settembre 1973 morì esule a Merano.
Localizzazione delle foibe istriane e triestine
Il Monumento ai Martiri delle Foibe di Pagnacco ha tre targhe di ricordo. La prima di esse, posta sulla parte anteriore recita: "Ai nostri fratelli giuliani, istriani, fiumani e dalmati morti nelle foibe nel mare per testimoniare l'italianità delle loro terre - il Comune di Pagnacco - Agosto 2012". Quella posizionata sul lato dice: "Agli eroici Vigili del Fuoco del 41° Corpo di Pola: maresciallo Arnaldo Harzarich capo squadra ed ai suoi valorosi commilitoni per la loro preziosa opera di recupero, a rischio della vita, delle vittime delle foibe per una loro cristiana sepoltura - la nipote Sara Harzarich Pesle - Agosto 2012". La terza targa dedicatoria, posta sul retro, accenna alla famiglia Costantino Tonutti, che ha donato il masso su cui si erge la scultura in ferro.
Pagnacco (UD) il Monumento ai Martiri delle foibe, scultura in ferro di Renato Picilli (2012)
Speriamo che il nostro post odierno abbia aiutato a conoscere e a non dimenticare questa figura di grande italiano.

mercoledì 27 settembre 2017

ALESSANDRO PAVOLINI L'ultima raffica di Salò

Pavolini figura di spicco del regime fascista nasce il 27 settembre 1903 da una famiglia dell'alta borghesia fiorentina. Suo padre Paolo Emilio indianista e orientalista di fama internazionale diventertà un Accademico d'Italia. Alessandro si laurea in Giursprudenza frequentando gli Atenei di Firenze e Roma. Proprio a Roma si trova il 28 ottobre 1922 giorno della Marcia su Roma e qui semplicemente si accoda alle colonne di Camice Nere Fiorentine. La sua ascesa nel partito è molto rapida, nel 1927 il marchese Ridolfi lo inserisce nella politica attiva con il ruolo di vice federale  e già nel 1929 con il ritiro dalla vita politica del marchese, divenne federale di Firenze e in questa veste istituì il Maggio Musicale Fiorentino. A soli 26 anni Pavolini è la massima autorità fascista a Firenze. Nel 1932 viene chiamato a far parte del Direttorio Nazionale del partito, nel 1934 si trasferisce a Roma e l' conosce una figura che segnerà tutta la sua vita Galeazzo Ciano. Livornese, Ciano è ormai inserito ai più alti livelli del partito, ha spostato Edda Mussolini ed è pertanto genero del Duce. I due coetanei diventano subito amicissimi. Pavolini eletto deputato grazie alla sua fama di scrittore e organizzatore viene chiamato a presidere la onfederazione professionisti e artisti. Nel 1935 il Duce decide di saldare i vecchi debiti con l'Etiopia, Ciano e Pavolini si arruolano volontati e insieme affrontano l'avventura combattendo con una squadriglia aerea che Pavolini intitola a "La Disperata" dal nome di una squadra di camicie nere operante a Firenze ai tempi della Marcia su Roma. Durante la campagna che porterà alla costituzione dell'Impero, è il corrispondente del Corriere della Sera e a fine campagna sciverà il suo secondo libro "La Disperata". Rientrati a Roma Ciano viene nominato Ministro degli Esteri, e Pavolini ormai entrato nelle grazie di Mussolini gira il Mondo come ambasciatore del regime fascista.
Dal 31 ottobre 1939 fu titolare del Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop), in sostituzione di Dino Alfieri, ad ispirare la nomina di Pavolini fu l'amico Galeazzo Ciano. Nello stesso periodo l'attrice Doris Duranti, divenne sua amante e tale resterà sino alla vigilia della tragica fine, la fece rifugiare in Svizzera. Pavolini è ormai arrivato all'apice del regime, la figura di Ministro della Cultura Popolare gli da una posizione seconda soltanto al Duce. Sono sue le famose "veline" che stabilivano per tutti i giornali cosa si doveva sapere e cosa no. Sotto la sua direzione operano l'EIAR (attuale RAI) la SIAE e l'Automobil Club Italia.
Perse l'incarico di ministro a seguito di un rimpasto governativo voluto da Mussolini l'8 febbraio 1943, nel tentativo di controllare il fronte interno, mentre la guerra appariva ormai perduta, né la propaganda né la censura militare riuscivano più ad occultare la verità. Nominato direttore de Il Messaggero, conservò la carica di consigliere nazionale del PNF.
Il 25 luglio 1943 venuto a conoscenza della destituzione e arresto di Mussolini, mise al sicuro la famiglia e due giorni dopo raggiunse Vittorio Mussolini in Gemania e si attivò per la ricostituzione del fascismo in Italia. Da Radio Monaco Pavolini e Vittorio Mussolini spiegano al mondo che il fascismo non è morto Costituita la Repubblica Sociale Italiana fu nominato segretario provvisorio del Partito Fascista Repubblicano (PFR) e il 23 settembre convinse il maresciallo Rodolfo Graziani ad aderire alla RSI e diventare Ministro della Difesa. Partecipò con Mussolini e  Bombacci alla stesura del Manifesto di Verona, approvato al Congresso del Partito Fascista Repubblicano il 15 novembre 1943. Qui si decise di punire i traditori che il 25 luglio 1943 votarono l'ordine del giorno Grandi e destituirono di fatto il Duce. 6 di loro sono nelle mani delle autorità repubblicane, fra di loro il conte Ciano. Pavolini decide di sollevare il Duce da un campito cosi difficile, concedere la grazia al proprio genero o perseguire il disegno dei fascisti più intransigenti alla testa dei quali c'è proprio Pavolini. Provvide personalmente alla compilazione dell'elenco dei giudici del Tribunale Speciale. Il verdetto du 5 condanne a morte Ciano, Marinelli, Gottardi Pareschi e De Bono. L'unico a salvarsi fu Cianetti, il giorno dopo aveva ritrattato la sua adesione all'ordine del giorno grandi e per questo venne condannato a 30 anni di carcere. L'unico di fatto che poteva salvarli era proprio lui, ma ormai Pavolini aveva inboccato la strada del fascismo duro e puro quello che di certo non poteva concedere la grazia a chi il fascismo lo aveva tradito. Fu cosi che i 5 condannati vennero fucilati a Verona l'11 gennaio 1944. Le sorti della Repubblica Sociale apparivano ormai segnate gli americani di li a poco raggiunsero Roma sfondando la linea Gustav e risalivano lentamente la penisola. In vista dell'arrivo a Firenze degli Alleati, Pavolini si recò nella sua Firenze e lì organizzò il corpo dei franchi tiratori.
Il 30 giugno 1944  completò la costituzione delle Brigate Nere, nel numero di 41 brigate, una per ogni provincia della RSI, ed intitolate ciascuna ad un caduto del fascismo. Ad esse si affiancavano sette brigate autonome e otto brigate mobili per un totale di 110.000 unità. Di fatto i tedeschi non vollero mai le Brigate Nere al fronte e le usarono solo per le azioni di controguerriglia contro i partigiani.
L' 11 agosto gli alleati entrano a Firenze, ormai abbandonata dai tedeschi ma non dai franchi tiratori organizzati da Pavolini. Si tratta di 300 individui fra uomini e donne che arroccati su 4 linee successive sparano per due settimane su alleati e partigiani, rallentando di fatto le operazioni militari di due settimane. Verranno stanati e uccisi tutti uno ad uno. Ebbe a dire a proposito dei fatti il generale inglese Alexander:

"La città italiana che preferisco? Firenze.  Perché lì gli Italiani ci hanno accolto sparandoci addosso."

Passò l'inverno 1944-45 con gli alleati bloccati sulla nuova linea difensiva tedesca la "Gotica" che venne sfondata solo nella primavera del 1945. E siamo agli ultimi giorni di aprile. Mussolini e quello che rimane del fascismo abbandonano Milano e insieme con loro Pavolini che cerca di organizzarte nel ridotto della Valtellina l'ultima resistenza. A bordo di un autoblindo viene bloccato da un posto di blocco improvvisato dalla 52ª Brigata Garibaldi, agli ordini del conte Pier Luigi Bellini delle Stelle. I partigiani, consultato il loro comando di zona, accettarono qualche ora dopo di far passare i tedeschi. Gli italiani, dopo la partenza dei tedeschi, avrebbero dovuto invece tornare indietro: l'autocarro di Pavolini partì bruscamente e, per superare una cunetta, fece una manovra scomposta con una repentina accelerata, equivocata come un tentativo di forzare il blocco. Ne nacque una sparatoria. Mentre Barracu proponeva di arrendersi, Pavolini gridava "Dobbiamo morire da fascisti, non da vigliacchi": preso il mitra si lanciò quindi verso il lago, correndo e sparando. Fu inseguito dai partigiani e ferito in modo piuttosto grave da schegge di proiettile ai glutei.A seguito di un'ampia battuta di ricerca fu catturato a notte, indebolito dalla ferita, fu poi portato a Dongo, nella Sala d'Oro del palazzo comunale, dove poi fu condotto brevemente anche Mussolini, anch'egli nel frattempo riconosciuto e catturato. Fu processato per collaborazionismo con il nemico, passibile per il CLN di fucilazione immediata secondo la sua ordinanza del 12 aprile precedente. Furono fucilati anche gli altri 12 arrestati che erano con loro. Pavolini ebbe per ultimo vanto quello di guidare la fila indiana dei condannati che dall'edificio del comune si avviò verso il lago, nei pressi del quale furono schierati di schiena per l'esecuzione.Il cadavere di Pavolini fu esposto il giorno dopo a Milano, a Piazzale Loreto, appeso con quello di Mussolini.

CORPO AEREO ITALIANO (C.A.I.)

CORPO AEREO ITALIANO  (C.A.I.)
ll mattino del 27 settembre del 1940, decollarono da San Damiano di Piacenza e Cameri, rispettivamemte 40 bombardieri BR 20 del 13º Stormo e altri 37 del 43°, diretti in Belgio lungo la rotta Trento-Innsbruck-Monaco-Francoforte sul Meno-Liegi. Nell'agosto del 1940 Mussolini decise di inviare la Regia Aeronautica per dare supporto alla Lufwaffe e  partecipare alle operazioni contro le città inglesi. Venne cosi costituito il Corpo Aereo Italiano (CAI) che venne ufficialmente formato il 10 settembre 1940 in seno alla 1º Squadra aerea - SQA1 e posto al comando del generale di squadra aerea Rino Corso Fougier. Esso era composto da due stormi da bombardamento, su Fiat BR 20M, uno stormo da caccia, su Fiat CR 42 e Fiat G 50, e una squadriglia da ricognizione su Cant-Z 1007-bis. Giunto in Belgio completo lo schieramemto di uomini e mezzi il 22 ottobre arrivando a schierare 178 velivoli. Il CAI fu posto alle dipendenze della Luftflotte 2 e i tedeschi assegnarono ai bombardieri italiani, come zona d'operazione sull'Inghilterra, un settore a sud del corso del Tamigi delimitato a settentrione dal 53º parallelo nord e a occidente dal meridiano di longitudine 1° ovest da Greenwich; mentre alla caccia furono assegnati pattugliamenti dall'alba al tramonto, fra i 4 000  e i 5 000  metri, nelle zone fra Gravelines e Dunkerque e fra Nieuport e Ostenda. Svolse la prima operazione di bombardamento contro gli impianti portuali e l'idroscalo di Harwich il 24 ottobre. La battaglia d'Inghilterra volse a sfavore della Lufwaffe e il 3 gennaio 1941 si chiuse il ciclo di operazioni del C.A.I. che comincio il rientro in Italia il 10 gennaio. Nel breve ciclo delle operazioni vennero svolte 1.076 sortite e sganciate 54.320 kg. di bombe
.Andarono persi 8 velivoli con 20 caduti. Perdite inflitte al nemico 15 velivoli sicuramemte abbattuti e 6 probabilmente.



giovedì 21 settembre 2017

21 SETTEMBRE 1943 INSURREZIONE E STRAGE DI MATERA 2


Matera fu la prima città del Mezzogiorno a insorgere contro i tedeschi, per tale motivo la stessa è stata insignita della Medaglia d’Argento al Valor Militare. L’ 8 settembre a Matera c’è un piccolo presidio con un comando di sottozona e un battaglione allievi avieri. All’annuncio dell ’armistizio gli ufficiali si dividono: alcuni partono per il Nord dietro l'ex seniore della milizia Meloni, resta a Matera la maggioranza. Al comando della sottozona c’è il prof. Francesco Nitti, ufficiale di complemento. Gli alleati sono in arrivo, le retroguardie germaniche bruciano i carri-merci della ferrovia lucana e due motrici; i soldati razziano i negozi. Il Palazzo della Milizia viene occupato dai paracadutisti tedeschi. Iniziano i rastrellamenti fra il 18 e il 20 dodici ostaggi, vengono rinchiusi nella caserma della milizia e minato l’edificio. Il 21 si odono i rumori degli ormai vicini combattimenti fra alleati e tedeschi. Verso le 17 in via San Biagio nella oreficeria Caione, alcuni soldati tedeschi si fanno aprire le vetrine, intascano anelli e orologi. Quando stanno per uscire con il bottino due italiani tirano fuori la rivoltella e sparano. Un tedesco cade nel negozio, l’altro ferito esce in strada ed è finito con una bomba a mano. Scatta l’allarme, i tedeschi accorrono. Sparano gli ex militari che si sono tenuti un’arma in casa, e i civili a cui Francesco Nitti distribuisce fucili e munizioni. Si combatte nel rione San Biagio, attorno alla piazza Grande. Emanuele Manicone, esattore della Elettrica Lucana, corre per le vie del centro urlando: «Hanno ammazzato due tedeschi!». Poi vede un maresciallo nazista da un barbiere, gli si getta contro con un coltello, lo ferisce, lo disarma; poi si dirige alla caserma delle guardie di finanza per guidarli al combattimento e morire colpito da una raffica. La battaglia si allarga. I tedeschi vanno alla cabina di distribuzione dell’ elettricità; minano gli impianti, fucilano due ingegneri della Lucana. Alle 18 si ode il boato: è saltata la caserma della milizia con gli ostaggi, solo uno dei dodici è scampato. All’alba si aspetta un attacco tedesco,  arrivano invece i canadesi.
A ricordo della strage, in città e' stato eretto un cippo in marmo nei pressi del palazzo della Milizia, sul quale sono riportati i nomi delle vittime.

mercoledì 13 settembre 2017

12 SETTEMBRE 1944 LA DEPORTAZIONE DEL QUESTORE DI FIUME

La controversa figura di Giovanni Palatucci

Iscritto al Partito Nazionale Fascista, nel 1932 conseguì la laurea in giurisprudenza presso l'Università di Torino. Nel 1936 giurò come volontario vice commissario di pubblica sicurezza, e nel 1937 venne trasferito alla questura di Fiume come responsabile dell'ufficio stranieri e poi come commissario e questore reggente. Nel novembre 1943 Fiume, pur facente parte della Repubblica Sociale Italiana, di fatto entrò a far parte della cosiddetta Zona d'operazioni del Litorale adriatico, controllata direttamente dalle truppe tedesche per ragioni d'importanza strategica e il comando militare della città passò al capitano delle SS Hoepener. Pur avvisato del pericolo che correva personalmente, decise di rimanere al suo posto, Per contrastare l'azione del comando tedesco, Palatucci vietò il rilascio di certificati alle autorità naziste se non su esplicati autorizzazione, così da poter aver notizia anticipata dei rastrellamenti e poterne dar avviso. Inoltre inviava relazioni ufficiali al governo della Repubblica Sociale Italiana per segnalare continue vessazioni, limitazioni nello svolgere le proprie attività e il disarmo dei poliziotti italiani da parte dei tedeschi. Egli si preoccupò anche dell'istituzione di uno "Stato Libero di Fiume", per far sì che questo territorio, che correva il rischio di dover venir ceduto dall'Italia alla Jugoslavia, mantenesse una sua indipendenza. Fu proprio con l'accusa formale di cospirazione e intelligenza con il nemico in seguito al «rinvenimento di un piano relativo alla sistemazione di Fiume come città indipendente, tradotto in lingua inglese» che il 13 settembre 1944 venne arrestato dai militari tedeschi e tradotto nel carcere di Trieste Il 22 ottobre venne trasferito nel campo di lavoro forzato di Dachau, con il numero 117826, dove morì di stenti il 10 febbraio 1945, a soli 36 anni, 78 giorni prima della liberazione del campo.
Nel 1952 lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci raccontò che il nipote durante la sua permanenza a Fiume aveva salvato «numerosissimi israeliti». Da allora Giovanni Palatucci è salito agli onori sia in Israele (dove è Giusto tra le nazioni dal 1990), sia presso la Chiesa cattolica (per la quale è Servo di Dio dal 2004), sia presso la Repubblica Italiana (per la quale è Medaglia d'oro al merito civile dal 1995). Secondo lo storico Michele Sarfatti è avvenuto che «il sistema delle onoranze nei confronti di Giovanni Palatucci ha preceduto il lavoro di ricerca storica. Questo è il motivo per cui a lui sono state attribuite in modo acritico azioni che nessuno aveva mai verificato essere state compiute veramente da lui»Già nel luglio 1952 un memorandum del Ministero degli Interni, aveva escluso che Palatucci avesse compiuto un salvataggio di massa, ma nessuno fece approfondite ricerche documentali.  Stando alla ricerca del Centro Primo Levi, in base all'esame di circa 700 documenti finora inediti, Palatucci andrebbe descritto come uno zelante esecutore della deportazione degli ebrei presenti a Fiume, nel suo incarico di responsabile dell'applicazione delle leggi razziali fasciste. Quindi come avrebbe fatto Palatucci a salvare oltre 5.000 ebrei se  dai documenti esaminati è emerso che nel 1943 Fiume contava solo 500 ebrei, la maggior parte dei quali, 412, pari all'80%, finì proprio ad Auschwitz. Anche il museo Yad Vashem e la Santa Sede hanno avviato accertamenti. L'Osservatore Romano, seppure con qualche riserva, ha ammesso che «sul caso Palatucci le ricerche storiche di prima mano sono state poche, che numeri e fatti sono stati sottoposti ad interpretazioni agiografiche. Nel 2013 il Centro Primo Levi ha avanzato alcuni dubbi sulla corretta ricostruzione storica delle vicende legate alla figura di Palatucci. A seguito di questa ricerca la figura di Palatucci è stata rimossa da un'esposizione al Museo dell'Olocausto di Washington e lo Yad Vashem e il Vaticano hanno iniziato a esaminare la nuova documentazione emersa, ed è anche probabile che in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati, che alcuni eventi andranno riletti” Ad oggi la situazione non è ancora stata chiarita del tutto.

Giovanni Palatucci con alcuni suoi collaboratoti della Questura di Fiume
29 aprile 1945 dopo meno di due mesi dalla morte di Palatucci nel campo di Dachau,
 i prigionieri sopravvissuti vengono liberati dagli americani